Page 68 - Goya y el mundo moderno
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contesto, fatto di pale d’altare, di affreschi e di de- corazioni varie, molto interessante e tale addirittu- ra da far comprendere bene quale fosse la situazio- ne dell’arte a Roma poco prima che un grande ri- volgimento politico relegasse l’ambiente romano in una posizione marginale con la conseguente cresci- ta a dismisura di quello francese. Goya non era ita- liano e non era francese. Non apparteneva dunque a nessuna delle due grandi tradizioni artistiche che stavano per scambiarsi il testimone ormai sempre più nelle mani dell’Accademia di Francia a Roma e poco dopo dei pittori della Rivoluzione.
Nel cantiere della Santissima Trinità di via Con- dotti non si avverte alcun sentore di tempi nuovi, ma al contrario si percepisce un senso di piena soddi- sfazione e sicurezza che infonde al visitatore e al fe- dele una strana impressione di fatto compiuto e non più ulteriormente modificabile o migliorabile, tale da lasciare sostanzialmente insoddisfatti. Sull’altare maggiore della chiesa troneggia una superba pala d’altare di Giaquinto eseguita nel 1749, oltre venti anni prima dell’arrivo di Goya a Roma. Vi si vede la Santissima Trinità e un angelo grandioso che libera uno schiavo dalle catene. Era questa della liberazio- ne degli schiavi una delle missioni dei padri trinita- ri e quindi il quadro aveva una valenza politica og- gi mal percepibile. Il dipinto è un capolavoro di gra- zia e luminosità. Le immagini dell’angelo e dello schiavo emanano la stessa pienezza e felicità. Non c’è alcuna relazione tra la storia reale e l’arte, e l’o- pera vale per la sua bellezza intrinseca più che per il messaggio che trasmette. Ma tutte le altre opere d’ar- te realizzate per questa chiesa hanno il medesimo ca- rattere, anche se molto diversi sono gli stili degli au- tori presenti. C’è, ad esempio, un finissimo artista che ebbe poi fama internazionale, Andrea Casali, che è la quintessenza del patetismo e del languore; c’è un severo pittore proveniente alla lontana dalla nobile scuola dei Carracci, Gaetano Lapis, che rappresen- ta come meglio non si potrebbe la compostezza e la compunzione del vero pittore religioso, nitido, puli- to, amabile e ineccepibile nella rappresentazione del- la devozione e della santità; c’è un potentissimo mae- stro del barocco più clamoroso e magniloquente, Gregorio Guglielmi; c’è un aspro e dolente pittore spregiatore della superficialità e della facilità di elo- quio, il romano Marco Benefial. González Velázquez agisce in un tale contesto. Segue lo stile di Giaquin- to, è solo un po’ meno luminoso e splendente. Ma si
qualifica come artista di merito in perfetta conso- nanza con un clima culturale sempre più lontano da un qualsivoglia coinvolgimento con i veri drammi dell’esistenza.
Goya conobbe bene questa cultura e apparente- mente la seguì negli anni giovanili anche se, da vero spagnolo, la sua aderenza alla vita reale non venne mai meno neppure nelle prime prove in cui una leg- gera pasta cromatica rifulge nei suoi dipinti delica- tamente formulati quasi che dovessero fungere da lie- to accompagnamento di una vita nobiliare e inap- puntabilmente serena, come si vede ad esempio nel ciclo del 1774, a olio su muro, per la cappella della Certosa di Aula Dei presso Saragozza.
Lui però non era così. La sua origine era umile ma gli studi erano stati buoni, favoriti del resto dal- l’aver potuto vedere negli anni dell’adolescenza mae- stri come Mengs e Tiepolo, giunti a Madrid agli ini- zi degli anni sessanta, rivali memorabili e grandi ar- tisti entrambi. Ma come Goya sia arrivato a ribal- tare i presunti presupposti della sua educazione e a diventare quella sorta di artista politico, fosco, te- nebroso e potentissimo nell’espressione, non è ben chiaro, specie considerando come i tanti aneddoti che nel tempo si accumularono su di lui delinean- done un carattere ribelle e violento sarebbero in buo- na parte inventati e comunque poco attendibili.
Goya per noi è il grande cantore dei cartoni per gli arazzi reali dove la dorata vita della corte è raffi- gurata in un brivido di orrore e repulsione che tra- sforma le persone in pupazzi atoni e inconsapevoli, delle Stregonerie, del Colosso, dei tanti Ritratti in cui sembra che il pittore abbia inghiottito l’anima dei personaggi per incatenarli a un beffardo destino, del- le Fucilazioni, del 3 maggio 1808, dei Capricci, del- la Tauromachia, dei Disparates (follie, spropositi).
Vissuto nell’età del romanticismo e del neo- classicismo, Goya non è né l’uno né l’altro. Non par- tecipa in alcun modo all’evoluzione del filone do- minante tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX se- colo del neoclassicismo di impronta italo-francese. Non è un rivoluzionario né un conservatore, alme- no dal punto di vista del linguaggio figurativo. Ma è un furibondo interprete di una sorta di dispera- zione generale che promana dalla coscienza dell’in- dividuo e sembra voler prescindere dall’immedia- tezza della storia per elevarsi su un piano di univer- sale tormento e sconvolgente delusione. Non avreb- be potuto avere un impatto sugli sviluppi dell’arte



























































































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