Page 69 - Goya y el mundo moderno
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  italiana nel corso dell’Ottocento forse proprio per- ché, di fatto, pur brevemente presente in Italia, non ne aveva tratto materia di interesse e aveva guarda- to ai modelli italiani come a relitti superati e derisi dal tempo. In un libro molto importante del 1999, Goya. The Last Carnival, gli autori Victor I. Stoi- chita e Anna Maria Coderch hanno collegato l’ispi- razione goyesca alla tradizione della follia matura- ta nel mondo umanistico nordeuropeo che, inaugu- rata dal libro della Nave dei folli di Sebastian Brant alla fine del Quattrocento, esplode letteralmente nel- l’opera del marchese De Sade, attraversando la se- conda metà del XVIII secolo nell’apoteosi demo- niaca del mondo perverso da intendersi in un’acce- zione che non è naturalmente la pedestre metafora sessuale della sottomissione generante il piacere, ma è la proiezione universale del disagio dell’esistenza rispetto all’ordine sociale che non consente all’idea stessa del trasgredire e condanna alla perdizione l’in- dividuo tralignante. È la logica goyesca così come è chiaramente espressa nel celebre avviso del “Diario de Madrid” del 6 febbraio 1799 che annuncia la pubblicazione dei Capricci. Nel memorabile testo è chiara la tesi in base a cui la raccolta delle sublimi e inquietanti incisioni scaturisce dalla ferma certez- za di Goya che degnissimo e necessario campo di rappresentazione della pittura possa e debba essere la critica degli errori e dei vizi umani attraverso il nobilitante messaggio dell’immagine. Il “Diario” di- ce a chiare lettere che questo tipo di arte ha un sen- so educativo profondo, anzi è la lotta stessa contro l’ignoranza. È una dimensione estetica che non ap- partiene alla cultura figurativa italiana o perlome- no non vi appartiene nel senso goyesco, perché è in- negabile che una funzione didattica e formativa sia invece ben presente nella storia della pittura e della scultura in Italia nella seconda metà del Settecento ma per lo più in chiave dottrinale cattolica e, inve- ce, molto difficilmente come manifestazione di un libero pensiero rivolto alla critica delle distorsioni, che al contrario condizionavano tutto l’apparato fi- gurativo con il conseguente obbligo di non poter prescindere dai presupposti dell’iconografia conso- lidata, sacra o profana che fosse, se non per piccoli scarti progressivi dettati nei casi più felici dall’estro di pittori finissimi come furono, ad esempio, Felice Giani, Marcello Leopardi, Giuseppe Cades e pochi altri, paralleli per qualche verso all’evoluzione goye- sca ma lontani le mille miglia da quel mondo dolo-
roso. Dunque non si può parlare di sintonia con l’u- niverso goyesco in Italia prima della fine dell’Otto- cento, quando le immagini distorte e tragiche dei de- relitti e dei marginali entrano nel discorso figurati- vo del nostro paese, non già per influsso goyesco ma per l’adesione agli ideali socialisti che generano un capolavoro come il Quarto Stato di Pellizza da Vol- pedo (esattamente cento anni dopo il citato “Diario de Madrid”) dove la qualità “classica” è comunque preservata dalla eletta stesura pittorica, fino a con- fluire nei deliri della Città che sale di Boccioni sca- turita, anch’essa a un livello altissimo di qualità, dal- l’angosciante disputa dell’Antico e del Moderno sen- tita nell’ambiente futurista con particolare intensità. Solo a quel punto l’arte italiana scopre la dimen- sione goyesca rimasta sepolta nei meandri della co- scienza rivoluzionaria pure latente nel Risorgimen- to italiano.
Saranno gli esponenti della Scuola romana della pittura degli anni venti e trenta del Novecento a tro- vare una dimensione goyesca in parallelo alle scon- volgenti esperienze letterarie di Moravia e pochi altri. Risorge in questa Scuola romana la dimensione tra- gica del vivere secondo il principio della maschera goyesca, che si incardina sull’individuo e lo distrugge fino a farne esplodere il terrore ineliminabile, con una logica figurativa che soltanto il cinema e il video mu- sicale, nelle forme dello zombie e dell’idea del morto vivente che pure sconfina nel grottesco e nella burla, hanno potuto rappresentare nuovamente a così gran- de distanza da un artista come Goya.
Ma non c’è dubbio che una dimensione goyesca attraversa pittori come Mafai, Scipione, Ziveri. Co- me Moravia questi artisti rappresentano una uma- nità non tanto di maschere ma di mostri metafisici che, nel loro caso, sono diretta emanazione del ti- more di disfacimento della città eterna non più in grado di riconoscersi dopo l’aggressione delle avan- guardie storiche, volte a trovare ben altre radici e tradizioni cui collegarsi per acquisire lo statuto di di- gnità e fierezza cui Goya aspirò, sprofondando poi nel nulla della “Quinta del sordo” ma lasciando an- che un ammonimento micidiale per tutti coloro che di tempo in tempo, tendono a identificare il presun- to progresso della comodità sociale per alcuni e del- la disperazione per altri come un punto di arrivo de- gli scopi di un’esistenza che crede di riuscire a esor- cizzare il male qualificandolo direttamente come la sede del brutto e del riprovevole.
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