Page 16 - Goya y el mundo moderno
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1. Francisco de Goya y Lucientes
Saturno che divora un figlio, 1821-1823
Madrid, Museo Nacional del Prado
redenzione e di riconquista della dignità perduta nel- l’esercizio della barbarie.
Tàpies realizzò un’opera in cui “il sangue rap- presentato perde la sua qualità iconica di sangue” e confessandosi “pittura”, vale a dire accettando di es- sere “materia che implica una pura sostanza poeti- ca”, mostrava la sua capacità di liberare l’essere uma- no dai pesi che l’opprimono. Stiamo parlando di Ma- talàs2, che all’epoca qualcuno definì come un “ma- terasso ferito dallo strazio”3.
Nessun oggetto risulta più impressionante di un vecchio materasso abbandonato nell’immondizia. In genere, quando ne vediamo uno ci appare come un’e- loquente allegoria della vita e della morte. Le orribi- li macchie e lacerazioni parlano di dolore, escremen- ti e agonia. Ma anche d’amore, di piacere e persino di fecondità. I resti di una vita umana estinta si con- centrano simbolicamente in questo rifiuto che, ab- bandonato, risalta in un paesaggio di immondizie.
Partendo dall’antica tradizione del ready-made, in Matalàs Tàpies si limitava a “fissare un oggetto preesistente”, per poi intervenire su di esso con un “at- to di mimesi pittorica” che imitava le macchie di san- gue accumulate in senso biografico dal materasso. In quest’operazione, tuttavia, l’artista cambiava legger- mente l’emblematico rosso in un arancione quasi fluo- rescente, quasi si trattasse di minio inossidabile e inos- sidante. In tal modo ci rendiamo conto che qui, come in Il 3 maggio 1808 a Madrid, il grumo ha perduto la sua condizione biologica e semantica di sangue per assumere, in maniera evidente, la taumaturgica iden- tità implicita nel suo “essere pittura”.
In ogni caso e ben oltre le cicatrici della situa- zione storica che ossessionarono Goya, in Matalàs ciò da cui la pittura pretende di redimerci un po’ è la nostra inesorabile condizione di futuri morti.
Ferite che non sanguinano
Quando sta tra le labbra, un pezzo di carne cruda segnala la sua presenza, soprattutto attraverso la freddezza tattile che trasmette. Frammento di cada- vere, non bagna la bocca con il sangue che ormai non circola più. Semmai, la inumidisce leggermente con qualche resto esanime di fluidi ormai statici. È questa la palpabile differenza tra ciò che è vivo e ciò che è morto.
Talvolta l’esperienza della carne cruda e taglia- ta può diventare, in proiezione, quella del nostro stes- so corpo indifeso e violato da laceranti aperture che
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clama per sé il ruolo e persino la posizione che do- vrebbero corrispondere al nostro lucido sguardo. Uguale funzione hanno gli occhi atterriti dei cavalli che in Il 2 maggio 1808, appaiono come gli unici oc- chi “umani” di tutto il dipinto.
All’interno del territorio figurativo che si può comporre osservando tutta la produzione di Goya, il grumo violaceo di sangue occupa un luogo privi- legiato. Quello in cui ciò che “è dipinto”, allonta- nandosi dalla sua iniziale vocazione di “artefatto per la mimesi”, mostra in modo più esplicito e visibile che mai la sua “qualità materiale di pittura”. E, al- lo stesso tempo, “la qualità poetica abbinata a det- ta materialità”.
Ancora una volta nella storia dell’arte occiden- tale, pertanto, si definisce la capacità taumaturgica della pittura. È nel “potere chiarificatore dello sguar- do pittorico pervaso di etica” (lanterna e sangue), che l’essere umano trova i segnali di un percorso di