Page 46 - Goya y el mundo moderno
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 1. Francisco de Goya y Lucientes
Non si può guardare, I disastri della guerra n. 26, prima edizione 1863
Madrid, Biblioteca Nacional
2. Francisco de Goya y Lucientes
Io l’ho visto, I disastri della guerra n. 44, prima edizione 1863
Madrid, Biblioteca Nacional
mi; la verità delle angosce che possono assalire la co- scienza, indotte dal disturbo mentale e dalla super- stizione che si alimentano a vicenda. Goya non vide il plotone di soldati francesi far fuoco quella notte contro i prigionieri terrorizzati, ma nessuno prima di lui aveva dipinto davvero il panico di chi sta per morire: uno si copre gli occhi, un altro li ha sbarra- ti, fissa il vuoto e si morde le nocche con la bocca spalancata. Occhi che guardano la morte: si trova- no in Goya e un secolo e mezzo più tardi in altre im- magini che non si possono guardare e dalle quali non si può distogliere lo sguardo, le fotografie scattate dai Khmer Rossi ai condannati un attimo prima del- l’esecuzione, istantanee sommarie – come quelle dei passaporti o delle carte d’identità – di qualcuno che ci guarda sapendo che entro pochi minuti sarà mor- to. Lo sa lui e lo sappiamo noi. Lo sa il fotografo che gli ha indicato come posare. “Non si può guarda- re.” Meglio sarebbe non aver visto, ma non si può farne a meno, non si deve farne a meno. È parte del- la condizione moderna.
Torno a guardare Le fucilazioni al Prado e mi pare di vedervi qualcosa che fino ad allora la pittu- ra non aveva osato rappresentare: il foro nero pro- dotto da una pallottola nella testa di un morto e il sangue secco, scuro, sudicio, non il sangue retorico dei dipinti di martiri o di battaglie ampollose; il san- gue versato da un essere umano che assomiglia a quello di un animale sgozzato in un macello (come nei macelli, i soldati francesi praticano in quella not- te d’oscurità primordiale la mattanza seriale mo- derna; è una sorta di catena di montaggio: al muc- chio dei morti si appressa la coda di quelli che mo- riranno). Quant’è diverso questo sangue quasi nero da quello che si scorge nel quadro accanto, il sangue fresco di un rosso chiaro e vivace che scorre in un ri- volo dal ventre del cavallo di un mamelucco e spriz- za sul volto dell’uomo che affonda il coltello nel cor- po dell’animale, lo stesso uomo forse – la camicia bianca, i pantaloni gialli, i capelli corvini – che sarà fucilato al termine di quella notte.
Continuo a girare per le sale dedicate a Goya. Quando entro in una di esse non cerco nessun altro pittore, neppure Velázquez. (“Solo Goya” è scritto sulla sabbia, ai piedi della duchessa d’Alba, nella te- la conservata presso l’Hispanic Society di New York, e in un certo senso è vero: chi, oltre a Goya, ha mai guardato così?) In Volo di streghe (cat. 26) qualcu- no china il capo e lo nasconde sotto un lenzuolo per
  Goya; ma la potenza e la verità delle incisioni resta- no integre, senza che la presunta irriverenza giunga a sfiorarle. Goya non può essere addomesticato, né banalizzato, da nessuno. Su di lui non ha effetto l’a- nestetico della familiarità.
Ma di là dal contagio visuale esiste un’influen- za più profonda, un atteggiamento che non è solo estetico. La decisione di guardare. Non nel senso let- terale, è ovvio, o non soltanto. Goya non è un do- cumentarista né un reporter di guerra sebbene il suo esempio conti parecchio in entrambi i campi. L’“Io l’ho visto” (cat. 156.44) dei Disastri non deve esse- re interpretato come un tentativo di rimarcare la ve- ridicità di una testimonianza su un fatto che si af- ferma accaduto proprio così come viene rappresen- tato, ma come una dichiarazione di principio. Goya non vide con i suoi occhi la fucilazione dei patrioti la notte del 3 maggio, esattamente come non pote- va vedere dei demoni alati e con la mitra divorare un uomo nudo, ma in entrambi i casi ha raccontato una verità intollerabile non già perché raccapric- ciante, ma perché prima di lui non l’aveva raccon- tata nessuno. La verità della violenza umana e del modo in cui i forti abusano dei deboli e degli iner-
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