Page 47 - Goya y el mundo moderno
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  non vedere ciò che accade sopra di lui, qualcun al- tro si getta a terra tappandosi le orecchie per non ve- dere e nemmeno sentire più nulla. A un uomo sor- do le urla di chi viene divorato vivo e lo scrocchio delle mandibole dei demoni devono sembrare più ag- ghiaccianti ancora giacché per lui sono inaudibili, così come più spaventoso è ciò che si immagina stia accadendo nell’oscurità rispetto a quel che si vede con i propri occhi. Qualcun altro si tappa invano le orecchie nelle Fucilazioni: come se fosse possibile, a così breve distanza, non udire le urla di paura e di dolore, gli ordini e gli spari.
Non si può guardare ma non resta altra scelta che farlo, e non si tratta di un obbligo di ordine este- tico. Ciò che non si può guardare ma bisogna guar- dare è ciò che gli uomini possono fare agli altri, ciò che riusciamo solo a intravedere, perché non ce lo consentono o perché avviene in segreto o perché pre- feriamo fingere che non stia accadendo. Quanto po- co hanno guardato e guardano davvero gli artisti, gli scrittori, tutti noi. Né l’arte né la letteratura hanno quasi mai voluto o saputo raccontare le cose come stanno, penso malinconicamente questa mattina al Prado. Ha guardato Fernando de Rojas, hanno guar- dato l’autore del Lazarillo e Cervantes, ha guarda- to Velázquez, ma solo certe cose, alcuni volti isola- ti. Ha guardato papa Innocenzo X e ci ha fatto pro- vare un brivido. Ha guardato Caravaggio, più di chiunque altro a suo tempo e per vari secoli. Ha guardato Goya e sono quasi duecento anni che stia- mo imparando da lui; e la lezione non finisce mai.
Ogni volta che qualcuno guarda o racconta le cose come stanno, lo scandalo della sua novità ci co- glie alla sprovvista. Ci fornisce notizie inedite sul mondo che abbiamo davanti agli occhi. Qualcuno decide di non illudersi e non illudere e questo pro- voca uno strepito simile a quello degli specchi che cadono in frantumi alla fine di quel film “tenebri- sta” di Orson Welles, La Signora di Shangai. Guar- dare è anche annientare con coraggio, rabbia o sar- casmo i simulacri visivi che vengono generalmente accettati come rappresentazioni reali. Raccontando com’erano, come mangiavano e parlavano, addirit- tura come puzzavano dei veri pastori di capre Cer- vantes ha sabotato per sempre tutti i luoghi comuni del romanzo bucolico, che lui stesso aveva tanto ama- to. L’immaginazione umana, come i ricchi commit- tenti dei pittori del Settecento, sollecita paesaggi bu- colici, menzogne consolatorie, e l’arte si affretta a
fornirli. Passeggiando per le sale del Prado in cui so- no esposti i cartoni per arazzi di Goya mi ricordo di quella varietà tardiva della favola pastorale che era tanto apprezzata in Unione Sovietica negli anni tren- ta e quaranta del secolo scorso: prati verdi e fertili kolchoz, giovani contadini ridenti, dediti al lavoro, pronti a godersi il meritato riposo e la festa che se- gue la mietitura. Mentre degli esseri umani veniva- no trascinati via nell’oscurità della notte e scompa- rivano divorati dal cannibalismo del terrore e altri si coprivano la testa per non vedere e si tappavano le orecchie per non ascoltare. Raccolti abbondanti, contadini felici, danze popolari con pittoreschi co- stumi folcloristici. I macellai di Stalin e di Mao ave- vano una particolare predilezione per gli idilli pa- storali. Ma il pittore della corte borbonica si per- mette barlumi di verità che non sarebbero stati tol- lerati dall’ortodossia sovietica: il volto annerito e sdentato di un contadino, la testa tignosa di un bim- bo, un bracciante curvo nell’aria infuocata di luglio, ci rivelano ciò che gli occhi del pittore hanno visto, l’aspra realtà dissimulata dalle convenzioni dell’ar- te ufficiale, che accompagna i signori altrettanto ama- bilmente della musica suonata da orchestre compo- ste da servi.
Nel Don Chisciotte Cervantes racconta più e più volte l’atto di narrare: il modo in cui le storie inter- vengono nella vita, il diverso posto che occupano a seconda della loro natura e del loro pubblico, addi- rittura a seconda dello spazio fisico in cui si svolgo- no; perché, per esempio, la passione solitaria e lu- natica del fanatico lettore protagonista non è la stes- sa cosa delle narrazioni orali dei personaggi che si trovano nell’osteria o della lettura ad alta voce di una lettera o di un manoscritto trovato in una vali- gia. In maniera analoga, ciò che spesso Goya rap- presenta non è solo l’oggetto dello sguardo, ma l’at- to stesso del guardare, e quello di distogliere gli oc- chi o tenerli chiusi. O, con maggiore sottigliezza, il gesto di chi guarda e per un istante non vede ciò che ha dinanzi perché si è smarrito in un’idea o in un ri- cordo: vicinissimo alle Fucilazioni e al 2 maggio 1808 si trova il misterioso autoritratto dipinto nel 1815, la cui singolarità si avverte meglio se lo si confron- ta con quello, quasi identico, che è custodito nel- l’Accademia di San Fernando. Nel dipinto dell’Ac- cademia, Goya – l’uomo vigoroso che a quasi set- tant’anni non mostra segni di vecchiaia – guarda lo spettatore, o guarda serenamente se stesso nello spec-
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