Page 54 - Goya y el mundo moderno
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sco. E ciò che lo stesso Baudelaire definisce mirabil- mente cauchemar plein de choses inconnues, lungi dall’essere una condizione naturale o congenita del- la psiche umana, ha sempre in Goya un risvolto po- litico che ben pochi tra i suoi imitatori vogliono per- cepire: vi si manifesta la convinzione, per noi fatal- mente ingenua, che i lumi della conoscenza possano dissipare gli incubi e migliorare la vita umana. Pre- scindere da questa vigorosa dimensione program- matica del lavoro di Goya, che egli stesso sottolinea tante volte, è più di un errore, credo, è un anacroni- smo. La sua nerezza lo rende nostro contemporaneo: è la sua fede nel progresso politico che lo distanzia da noi. Ci commuove che abbia scritto “Io l’ho vi- sto” ai piedi di una scena d’orrore, ma ci sconcerta quando in un’immagine allegorica in cui la Libertà irradia raggi accecanti assicura: “Questa è la verità”. Il suo radicalismo intransigente ci appare ingenuo perché non ha alcuna riluttanza a servirsi di motivi religiosi: quell’uomo con il mantello che si genuflet- te davanti alla “Divina Libertà” è sicuramente Goya stesso, e sembra pregare con devozione un’immagi- ne sacra. Il metodico sarcasmo illuminista si inibisce dinanzi all’idea stessa dell’illuminismo, e questo in un’epoca in cui quell’idea appariva non solo scon- fitta dal brutale rilancio dell’assolutismo, ma addi- rittura screditata dai tanti crimini che gli occupanti francesi avevano commesso in suo nome, e anche dall’incapacità dei liberali spagnoli di resistere in ma- niera efficace alla tirannia e creare una solida orga- nizzazione politica invece che attardarsi in smance- rie dottrinarie e fumose tiritere.
Eredi dello sconquasso ideologico del Novecen- to, noi non siamo più capaci di immaginare conci- liabili l’integrità estetica e morale e la fedeltà a una causa politica. La maggior parte degli eroi intellet- tuali si sono rivelati dei truffatori. I campioni della lotta per l’emancipazione non hanno avuto il mini- mo scrupolo nel vendersi alla polizia o nel diventare accoliti dei tiranni. Il secolo nel quale hanno traci- mato le visioni più cruente dei Disastri della guerra è stato anche quello dei grandi prestigiatori specia- lizzati nel non guardare e nel non vedere, o nel guar- dare ciò che si trovava lontano e non quel che ave- vano sotto gli occhi, o nel vedere solo una parte del- la sofferenza, una faccia dell’orrore, o nel non vede- re al di là del proprio augusto naso. Picasso ha di- pinto Guernica e Sueño y Mentira de Franco (cat. 201, 202), ma firmava senza alcun problema tutti i
manifesti che gli sottoponevano i delegati francesi di Stalin: nel suo Massacre en Corée ha fatto qualcosa di peggio che banalizzare l’eredità visuale di Goya e Manet, l’ha utilizzata in favore di un’ottusa propa- ganda politica. H.G. Wells, il paladino internaziona- le della giustizia, fu probabilmente testimone nel suo viaggio in Ucraina nei primi anni trenta della stessa fame che aveva attanagliato la Madrid di Goya nel 1811, ma si guardò bene dal raccontarla, o giunse al- la suprema maestria di non vederla neppure. Primo Levi racconta che quando i primi soldati russi entra- rono nel campo di Auschwitz distoglievano gli occhi dai prigionieri, come se si vergognassero di apparte- nere all’Umanità. “Non si può guardare” avranno detto, come Goya, che ritrasse molte volte quel ge- sto, l’istante in cui si volta la faccia per non vedere ciò che degli esseri umani sono capaci di fare ad al- tri esseri umani, come ritrasse la fredda decisione di non guardare con la quale tanti specchiati cittadini d’Europa assistettero alla scomparsa e allo sterminio di una parte dei loro simili, domandandosi magari “se fossero di un altro lignaggio”, come i due cava- lieri che passano conversando accanto a un cumulo di agonizzanti e morti di fame.
O si guarda o non si guarda. Se si racconta so- lo una parte della verità si sta mentendo. Lo com- prese George Orwell e accettò di restare solo quan- do si ribellò contro la parziale cecità della sinistra che vedeva i crimini di Hitler ma non quelli di Sta- lin; proprio come Camus pochi anni dopo, o André Gide nel 1936, quando si recò in Unione Sovietica, invitato in pompa magna a pronunciare l’elogio fu- nebre di Gorkij, e comprese che la decenza gli im- poneva di guardare ciò che nelle visite precedenti non aveva saputo o voluto vedere e di raccontarlo chiaramente, ignorando coloro che lo calunniavano e quanti gli ripetevano che rivelare certe cose equi- valeva a consegnare le armi al nemico. Dalla parte di chi sta colui che rifiuta di chiudere gli occhi e ve- de prendere la decisione opposta ai suoi amici me- glio intenzionati? Il prezzo da pagare per chi guar- da davvero e racconta ciò che ha visto è spesso la so- litudine, anche se non sempre la misantropia. Nel 1824, quando Goya raggiunse il suo esilio di Bor- deaux, quasi ottantenne, Moratín lo ritrasse come un vecchio già consumato dagli anni, ma ancora col- mo di coraggio e di un’energia che immaginiamo brusca e implacabile, come quella dell’anziano del- l’“Ancora imparo”. Sembra nostro contemporaneo,






























































































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