Page 53 - Goya y el mundo moderno
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  co, Le fucilazioni e Il 2 maggio 1808, e sostare da- vanti a essi tutto il tempo che serve, cercando di igno- rare le successive ondate di turisti e ancor di più le spiegazioni delle guide, soprattutto quelle impartite in lingue che capiamo. L’effetto è sempre devastante. Non è possibile costruire nessuna epica, nessuna sto- ria esemplare a partire da queste immagini che di- sgregano con l’irreparabile furia di un acido tutte le rappresentazioni di eroismo o di nobiltà bellica idea- te prima e dopo, l’intera montagna di enfatiche ver- bosità e gli spettacoli di masse in rivolta o di sobrie ed efficienti armate sparse per il mondo negli ultimi due secoli: dipinti storici, gruppi scultorei, schiere di operai che avanzano verso la vittoria, parate marzia- li, sacrifici generosi, inni, discorsi, chilometri di ver- si. Tutto diviene grottesco in confronto a questi due dipinti quanto la prosa amministrativa con la quale le autorità di Madrid, nel 1814, bandivano un con- corso di pittura destinato a esaltare “il momento fe- lice, anche se cruento, in cui il popolo spagnolo pas- sò dall’infausta schiavitù alla benigna libertà”.
L’insulsa retorica municipale è sostanzialmente la stessa che è servita a mandare al macello chissà quanti milioni di vittime in tutto il mondo, in nome delle idee più disparate e a beneficio di non impor- ta quale fornitore di uniformi e razioni da campo. I momenti felici e cruenti, afferma Goya per la prima volta – e per sempre – non esistono, se non per i car- nefici o gli sfruttatori del supplizio altrui. Nel 2 mag- gio 1808 la “gloriosa insurrezione” è il confuso am- mutinamento di una marmaglia che circonda alcuni militari a cavallo, li uccide affidandosi alla pura for- za del numero e si accanisce sui cadaveri ancora cal- di. Goya, così attento a raffigurare lo sguardo uma- no, dipinge qui occhi che quasi escono dalle orbite a causa del panico o dell’ebbrezza della violenza fi- sica. Tutto è allo stesso tempo atroce e banale e non si vede nessuno passare dall’“infausta schiavitù alla benigna libertà”, ma solo dalla vita alla morte, dal- la condizione umana a quella animalesca, allo stes- so tempo sbigottita e omicida. Al centro della scena figura un uomo che continua a pugnalare un cada- vere e che probabilmente non tarderà a morire an- che lui in una maniera sventata e spaventosa. L’uni- ca nobiltà è negli occhi dei cavalli che presto saran- no sventrati dai coltelli ancora avidi di sangue.
Non che Goya guardi senza prendere posizione. Sa che esistono innocenti e colpevoli, carnefici e vit- time, ma sa anche che, una volta scatenata, la vio-
lenza è un incendio furioso che distrugge tutto ali- mentandosi di quanto v’è di peggio nell’animo uma- no. Il 2 maggio 1808 e Le fucilazioni non sono tan- to due episodi successivi quanto due facce di una stessa medaglia, i due poli di un flusso di catastrofi che per sei anni ha imperversato per la Spagna, peg- gio ancora, l’ha indirizzata verso un futuro di bar- bara tirannia, povertà e guerra civile. Coloro che uc- cidono la mattina muoiono durante la notte. La fu- ria omicida non cede il posto alla nobilitazione spi- rituale del martirio, ma al puro terrore. L’uomo che conficca la lama nel ventre del cavallo e riceve sul viso il getto caldo del sangue indossa pantaloni gial- li e una camicia bianca identici a quelli del patriota che spalanca le braccia dinanzi ai fucili del plotone d’esecuzione. In quanto ai soldati francesi, la disci- plina e l’efficienza servono loro a quello che sono servite le stesse glorificate virtù a tutti gli eserciti, a Madrid nel 1808 come nelle Asturie nel 1934, in Ucraina nel 1941 o in Vietnam nel 1968, a massa- crare civili disarmati.
Altri scelgono di non guardare o di guardare so- lo da un lato. A partire dal quaderno da cui nacquero I disastri della guerra, anche a causa della malattia che lo rese sordo intorno ai cinquant’anni, Goya acuisce al massimo il proprio sguardo, lo sguardo che già traspariva dai suoi cartoni per arazzi: guar- dare sempre, ecco il suo imperativo, guardare tutto con la convinzione incrollabile che solo la verità me- rita di essere raccontata, che non ci sono scuse per attenuare o distorcere ciò che si è visto, anche se si pretende di farlo in nome di un bene o di una causa superiore. Ma non è affatto un nichilista segreta- mente compiaciuto per la selvaggia degradazione de- gli esseri umani, come lo sono stati alcuni dei suoi discepoli e imitatori del Novecento. Estranea quan- to l’ossessiva irrazionalità onirica dei surrealisti gli risulta la crudeltà morbosa manifestata da Grosz nel- le caricature di ricconi e militari e nei disegni di cri- mini sessuali degli anni venti che, tanto spesso, ven- gono definiti “goyeschi”. Torniamo all’intuizione di Baudelaire: nei volti più bestiali di Goya resta sem- pre una traccia di umanità, e per questo ci inquieta- no ancora di più, perché li avvertiamo vicini, perché vi scorgiamo la nostra stessa capacità di trasformarci in esseri mostruosi o di soccombere a un’invasione di ombre niente affatto fantastica, perché è dentro di noi o proviene da persone che ci somigliano mol- to, non da maschere confinate nel regno del grotte-
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