Page 55 - Goya y el mundo moderno
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  8. Francisco de Goya y Lucientes
Ancora imparo, Album G, n. 54, 1824-1828
Madrid, Museo Nacional
del Prado
da all’orgasmo quando Lolita, sventata e ancora to- talmente innocente, gli si siede sulle ginocchia. I pre- ti che trascinano la carcassa di un asino morto in Un chien andalou discendono da Goya, ma riconosco il suo sorriso e la sua tenerezza tragica anche nei men- dicanti di Viridiana e nei monelli di Los olvidados. In Vita e destino Vasilij Grossman ha immaginato ciò che nessuno ha potuto vedere e poi raccontare: il momento in cui, chiuse le porte della camera a gas, i condannati stipati nell’ombra iniziavano ad avver- tire l’asfissia. Sapeva, come Goya, che quando non esistono testimoni sono la finzione può raccontare la verità e come lo spagnolo non si è permesso il lus- so del cinismo. In un discorso memorabile uno dei suoi personaggi sembra dirci anche lui: “Questa è la verità”, e parla di una speranza che sopravvive al- l’orrore e risiede nella bontà umana, quella vera, quella che si trova a volte nei personaggi di Cechov, non il Bene astratto in nome del quale si commetto- no i crimini (ma Grossman morì pensando che il suo libro, confiscato dal KGB, non esistesse più).
Nel mediocre dramma Notte di guerra al Mu- seo del Prado Rafael Alberti ha manipolato come marionette i personaggi di Goya, al servizio di ciò che il pittore aveva fatto tanto per contrastare: le menzogne della propaganda. Assai più affine al suo sguardo incorruttibile era quello di Arturo Barea che senza dubbio pensò a lui nell’ultimo volume di La Forja de un rebelde [“La forgia di un ribelle”, mai tradotto in italiano], nel raccontare lo spettacolo de- gradante delle famiglie madrilene che nelle mattine d’estate del 1936 si recavano a vedere nelle cunette e nelle spianate intorno alla città i cadaveri di colo- ro che erano stati fucilati durante la notte, i morti che chiamavano “triglie” perché avevano la bocca spalancata e gli occhi sbarrati cui mettevano a vol- te tra le labbra sigarette accese o frittelle. A diffe- renza di Alberti, Barea sapeva, come Orwell e Gros- sman, che la brutalità del nemico non giustifica quel- la della propria fazione, e che un crimine non è me- no degradante se viene commesso in nome della giu- stizia o della rivoluzione. Finì in esilio anche Barea naturalmente e il suo nome, come quello di Orwell, fu altrettanto scomodo per gli uni e per gli altri. Ma è questa la lezione permanente di Goya, il vero se- greto della sua originalità. Per questo continua an- cora a interpellarci, ci sfida a ripetere la prova d’au- dacia che nessuno aveva osato affrontare prima di lui, che nessuno ha portato tanto oltre.
 ma apparteneva a un’epoca meno narcisista e quin- di meno piagnucolosa della nostra: aveva venduto solo trenta copie dei Capricci, ma I disastri della guerra, cui aveva dedicato tanto tempo e una dedi- zione così profonda, non riuscì neppure a vederli pubblicati; Il 2 maggio 1808 e Le fucilazioni non piacquero praticamente a nessuno e finirono presto in un magazzino. L’inganno ottico della posterità ce lo fa immaginare come un artista cosciente della ve- nerazione che l’avvenire gli avrebbe riservato, ma bi- sogna tenere a mente che perché un elogio serva a qualcosa è imprescindibile che il destinatario non sia morto.
L’eredità di Goya nell’arte moderna è probabil- mente più ricca di quella di qualsiasi altro pittore, ma non è meno potente la corrente sotterranea che sentiamo provenire da lui quando accarezziamo la possibilità, ora così screditata, di un radicamento delle arti dell’immaginazione nel racconto veridico del mondo, o perfino della sua influenza pedagogi- ca o umanizzante che a Goya stava tanto a cuore. Ritrovo l’esempio di Goya nell’intrepida oscenità con cui James Joyce nell’Ulisse ritrae Leopold Bloom nell’atto di defecare mentre legge il giornale, o in Vladimir Nabokov che racconta di Humbert – co- perto dalla sua dignitosa giacca da camera – in pre-
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