Page 50 - Goya y el mundo moderno
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 5. Francisco de Goya y Lucientes
Recinto di pazzi, 1793-1794 Meadows Museum, Dallas
quelli che fanno da sfondo alle incisioni di Goya: pia- nure aride, rovine, alberi amputati.
Vedo il ritratto di Jovellanos e mi ricordo di al- tri spagnoli illuminati destinati alla sciagura, di An- tonio Machado e Manuel Azaña. Nelle fotografie, persino nei più solenni ritratti ufficiali, anche Azaña guarda con l’insicurezza di chi sa di essere un intru- so nei saloni del potere e di dover far fronte a diffi- coltà di una scala terrificante, incluse le varianti ti- picamente spagnole della meschinità e della follia umana. Ci sarebbe piaciuto che Goya avesse ritrat- to di nuovo l’amico Jovellanos alla fine dei suoi gior- ni: lo immaginiamo altrettanto anonimo e smarrito di Manuel Azaña nelle ultime foto scattategli a Mon- tauban prima della morte, quando i suoi occhi ave- vano già visto e le sue orecchie già ascoltato ciò che neppure i suoi peggiori vaticini gli avrebbero per- messo di immaginare nel 1931.
Goya è nostro predecessore e nostro contem- poraneo non perché fa a pezzi le regole del decoro nella pittura, ma perché si rifiuta di non guardare, aprendo così territori vergini alla rappresentazione visiva, dando mostra di un atteggiamento che è an- che un metodo di osservazione inattaccabile, paral- lelo a quello scientifico, in cui le convenzioni e le cer- tezze del passato non valgono niente rispetto ai da-
ti freschi derivati dalla sperimentazione. È l’atteg- giamento di De Quincey che racconta in prima per- sona le allucinazioni dell’oppio e l’agonia della di- pendenza, è quello di Baudelaire che legge De Quin- cey e ne segue l’esempio per guardare e raccontare ciò che fino ad allora la letteratura non aveva preso in considerazione: lo spettacolo della solitudine mo- derna nelle città, dell’essere umano smarrito non nel- le foreste o negli orizzonti della poetica del sublime ma nella moltitudine degli sconosciuti che riempio- no le strade. Nei peggiori sogni dell’oppio De Quin- cey diceva di soccombere alla tirannia del volto uma- no, alla sua infinita moltiplicazione: ci sovvengono le folle ammassate di Goya, quei volti che si accal- cano, uno accanto all’altro, per guardare qualcosa, con l’espressione al tempo stesso distaccata e mor- bosa con la quale si assiste a uno spettacolo di cru- deltà pubblica, che si tratti di un delitto o di una cor- rida. Ciò che rende così terribili quei mostri è che hanno sempre qualcosa di riconoscibile, qualcosa che ci impedisce di sperare in un risveglio che li fac- cia scomparire. “Il grande merito di Goya è quello di aver creato un mostruoso verosimile – scrive Bau- delaire con la perentoria chiarezza che gli è propria nel giudicare le arti visive – tutti quei contorcimen- ti, quelle facce bestiali, quelle smorfie diaboliche, so- no sature di umanità”.
Si tratta di uno dei tratti cardinali dell’orrore moderno: il mostruoso non appartiene al regno del- la fantasia. Ciò che rende intollerabile l’incredibile è il fatto che sia avvenuto o che stia avvenendo sot- to i nostri occhi, un fatto del genere obbliga a una conversione di tutti i codici della narrazione e della rappresentazione. Alla decisione di guardare corri- sponde lo stupore dinanzi a spettacoli che sfidano i limiti della verosimiglianza e della ragione e travali- cano le capacità che si consideravano sufficienti fi- no a quel momento. Goya, come qualsiasi altro ar- tista di talento, non avverte la brama di innovare per forza che tanto pungola i provocatori alla moda, e meno ancora il bisogno di scandalizzare: vuole do- cumentare l’inaudito e il mai visto e pertanto deve trovare procedure adatte alla nuova sfida; lo scan- dalo non è nei suoi intenti, ma nella nuda realtà del- le cose e, caso mai, nella sua decisione di mostrarle così come sono.
Lo sguardo, come ci insegnano i neurologi, è una sofisticata costruzione intellettuale, non un ri- flesso passivo delle forme visibili. Condizionati dal-
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